Un incontro speciale: suor Enrica
Un incontro per capire. Suor Enrica lavora nel carcere Don Bosco di Pisa e ci ha raccontato la sua vita quotidiana tra uomini e donne che hanno sbagliato, ma hanno diritto a restare umani, con un’altra possibilità.
Un incontro per capire. Suor Enrica lavora nel carcere Don Bosco di Pisa e ci ha raccontato la sua vita quotidiana tra uomini e donne che hanno sbagliato, ma hanno diritto a restare umani, con un’altra possibilità.
Venerdì 16 settembre noi ragazzi di terza A della scuola secondaria abbiamo avuto un’ occasione speciale: la possibilità di incontrare e conoscere suor Enrica.
Perché un’occasione “speciale”? Suor Enrica, zia di un nostro compagno, è la cappellana del carcere Don Bosco di Pisa. Un compito difficile il suo: propone ai detenuti un percorso facoltativo e volontario per ritrovare, anche attraverso la fede, fiducia in se stessi e desiderio di ridare senso alla propria vita.
Molti degli oltre quattrocento carcerati, uomini e donne (tanti poco più che maggiorenni), che suor Enrica incontra ogni giorno, sembrano solo attendere la fine della pena in un cimitero per vivi: così ha definito il carcere uno di loro, Giuseppe Musumeci, che per sopravvivere all’inferno scrive racconti e poesie.
Abbiamo letto una sua pagina in classe, un testo autobiografico che ancora risuona nella nostra testa…
Avevo solo dieci anni quando con la mia famiglia lasciammo la Sicilia per trasferirci al Nord, il grande Nord che allora mi pareva l’Eldorado. Ricordo quei vagoni gremiti di sudore, soffocava l’aria oltre l’inverosimile… Mi sentivo diverso, rifiutato, così come altri miei coetanei, tutti figli del profondo Sud, figli di un dio minore. A trent’anni mi trovai a scontare un cumulo di pena di 18 anni, una condanna che cancella ogni forma di vita di ogni essere umano…
Il carcere è un luogo difficile. Suor Enrica ci ha spiegato che è diviso in due zone: una, quella penale, in cui si trovano i detenuti che hanno già avuto una condanna, l’altra, cosiddetta giudiziaria, dove i reclusi sono ancora in attesa di giudizio. La giornata è scandita da norme e orari. Di solito un detenuto si sveglia alle sette; alle sette e mezza ci sono già alcuni che cucinano mentre altri spazzano i corridoi: parecchie funzioni, infatti, ad eccezione di quelle di sorveglianza, vengono svolte dai carcerati stessi, che in questo modo possono avere almeno una parvenza di “vita reale” e di appartenenza a una comunità. Ai detenuti vengono inoltre concesse due ore d’aria la mattina e due il pomeriggio: è il loro momento di “finta” libertà e ne approfittano per parlare di tutto.
Nel carcere ci sono diverse strutture: le scuole, il teatro, il polo universitario, la chiesa e il CDT ( centro diagnostico terapeutico), un vero e proprio ospedale. Terminate le ore d’aria, i detenuti vengono di nuovo rinchiusi nelle loro celle: quella più grande è di quattro metri quadrati, c’è una televisione che trasmette solo le reti Rai e uno o due letti a castello. Il bagno è aperto e vi è solo un lavandino e la latrina, per evitare che i detenuti si possano fare del male. Alcuni sono sottoposti ad un regime molto duro: è previsto anche l’isolamento per reati molto gravi.
Un nostro compagno ha posto alla Suora questa domanda: Lei ha paura dei detenuti?
Suor Enrica ci ha risposto con una serenità disarmante: Perché dovrei? Non sono mostri, ma spersone che hanno commesso alcuni errori per i quali vengono puniti. Sono innanzitutto uomini, e come tali vanno rispettati! Ricordatevi: i detenuti sono persone da amare.
Il grado di civilizzazione di una società – ci ha invitati a riflettere suor Enrica – si misura anche dalle condizioni delle sue prigioni. In Italia, accanto a realtà molto moderne come quelle del carcere di Opera, ve ne sono moltissime fatiscenti, inadeguate, sovraffollate.
La suora ci ha poi raccontato che alle sue proposte aderiscono sia cristiani che musulmani, che condividono lo stesso bisogno di speranza, e anche di affidamento a un unico Padre. Il compito di suor Enrica è quello di offrire una speranza e un conforto a tutti nei momenti di maggiore difficoltà e, soprattutto, la religiosa cerca di far ritrovare ad ogni detenuto che si avvicina a lei fiducia verso Dio e verso gli altri. Non esistono ragazzi né uomini per natura cattivi, dice, ma bisogna aiutare chi ha sbagliato a ricominciare un nuovo cammino, dando a ciascuno un’altra chance. Il percorso per comprendere i propri errori e cercare di non commetterli più non è facile, soprattutto in un ambiente difficile e ostile come può essere il carcere, dove le condizioni di vita purtroppo spesso sono indecorose. Ma il messaggio che nasce dal nostro incontro con la suora è che bisogna sempre nutrire la speranza di riuscire a farcela, anche se prima si è sbagliato!
Crediamo che il carcere debba essere un luogo di rieducazione e avere dunque le caratteristiche delle istituzioni educative, come la scuola stessa, attente a “tirar fuori” da ognuno le attitudini e le caratteristiche migliori, per consentire a tutti un reinserimento positivo nella società.
Nelle parole di suor Enrica abbiamo trovato una conferma del valore e dell’importanza del percorso sui diritti umani e la legalità, che stiamo seguendo dall’anno scorso: ognuno di noi ha una dignità che deve essere rispettata ,e ognuno di noi necessita di amore, soprattutto se ha sbagliato.
(Lorenzo Fossali, Eleonora Radicci III A)